I.

Le origini della Letteratura Italiana

1. Dal latino al volgare

Alcuni fatti vanno messi anzitutto in chiara evidenza per comprendere il formarsi della letteratura italiana nel secolo XIII non come un evento miracoloso e improvviso, ma come il risultato di una complessa situazione storica, civile, linguistica e letteraria.

Anzitutto dovrà chiaramente affermarsi che la letteratura italiana comincia a manifestarsi con un suo linguaggio vario secondo le regioni, data la mancanza di una unità politica della penisola, ma fondato sulla lentissima trasformazione dal latino, specie quello parlato, al volgare (cosí detto in contrapposizione al latino scritto e letterario, rimasto lingua della cultura, degli atti ufficiali e soprattutto della Chiesa), quando quel linguaggio ha assunto caratteri piú sicuri, ha avuto una prima larga diffusione parlata, ha fatto le sue prime prove in forme di comunicazione piú pratica ed inizialmente piú elementare mentre il latino ancora rimaneva lo strumento piú consueto dell’espressione della cultura alta, della filosofia, della teologia, della narrazione storica, e delle manifestazioni ufficiali delle istituzioni religiose e politiche.

L’affermazione dell’italiano è lenta e documentata da testi spesso recuperabili in un lunghissimo arco di tempo, come lenta è la sua formazione linguistica che risulta dalla trasformazione del latino soprattutto parlato, secondo un movimento di evoluzione e di distinzione che è tipico di tutte le lingue neolatine o romanze (parola questa derivata dal «romanice loqui», cioè parlare latino) che sorgono, con diversa precocità o ritardo a seconda delle condizioni generali dei diversi paesi, nell’ambito vasto di quella che fu chiamata Romània, e cioè dei territori in cui la civiltà e la lingua latina si erano piú profondamente affermate durante l’epoca della dominazione romana: Francia, Spagna, Portogallo, attuale Romanía, Italia.

In Italia il processo di affermazione del volgare è tanto piú lento e complesso in quanto i legami della civiltà italiana erano molto piú forti con la civiltà latina ed erano mantenuti vivi soprattutto dalla potente presenza della Chiesa e del Papato che avevano adottato come proprio linguaggio appunto il latino. E in quanto le condizioni politiche e sociali italiane costituiscono un freno all’affermazione di un linguaggio che è anzitutto storica espressione di nuove unità nazionali e statali e di una nuova vita piú sicura di quelle classi sociali (popolo e borghesia) che solo lentamente, a mano a mano che cresceva la loro forza, la loro espansione, la loro affermazione economica e politica, sentirono il bisogno di usare, anche per l’espressione scritta e letteraria, la nuova lingua parlata.

Cosí, a causa della sua vita politica e nazionale piú precoce, in Francia (sia nella zona settentrionale intorno a Parigi, dove si afferma il vero e proprio francese, detto lingua d’oil, sia in quella meridionale provenzale con le sue vive corti feudali dove si afferma la lingua d’oc, che equivale al nostro «sí», come l’oil francese) la nuova lingua diviene assai presto lingua di cultura e di letteratura e dà luogo, già intorno al Mille, alla grande epica narrativa francese delle canzoni di gesta del ciclo carolingio e della romanzesca e amorosa poesia del ciclo bretone nonché, in Provenza, alla lirica dei «trovatori». Invece in Italia lungo è l’intervallo che intercorre fra l’apparire di documenti che provano la diffusione parlata del volgare nella sua lenta trasformazione dal latino e, con le varie coloriture regionali, la sua prima adozione per usi pratici e per atti legali ed economici, c la vera assunzione del volgare come lingua letteraria.

Per i primi documenti si può risalire alla fine del secolo VIII o al principio del IX: l’indovinello veronese che oscilla fra latino e volgare con un piú forte orientamento verso il secondo; i placiti, o documenti giudiziarii campani (fra il 960 e il 963) che concernono la proprietà di alcuni beni terrieri da parte dei monasteri benedettini di Capua, di Teano e di Sessa, dipendenti da Montecassino; fino a piú numerosi documenti del secolo XI e XII, in cui dall’uso pratico e legale del volgare si passa a primi tentativi letterari, come nel caso del Ritmo laurenziano e dei ritmi cassinesi, bellunesi e lucchesi che celebrano avvenimenti locali o lodano signori e dignitari ecclesiastici.

Ed ecco: già in questo breve elenco si può ricostruire, per fatti essenziali, lo sviluppo dell’adozione del volgare. Prima in forme estremamente ancora oscillanti fra latino e nuova lingua (e quindi quasi con una incertezza, timidezza ed effettiva difficoltà); poi in relazione ad usi pratici, che pur comportano il fatto importante di una riconosciuta iniziale dignità della nuova lingua che può sostituire il latino e che d’altra parte corrisponde all’esigenza della comprensibilità a persone che già parlano quella nuova lingua e sono ignoranti del latino. Infine i primi tentativi di adozione a livello piú alto e con maggiori pretese letterarie, anche in relazione al crescere di forza e di esigenze culturali di ceti che non riconoscono piú nel latino la loro lingua viva e capace di esprimere propri sentimenti e vicende.

Poi, come vedremo, solo nel Duecento, lo sviluppo piú pieno della civiltà comunale e il bisogno di comunicazione piú vasta, fra classi alte e classi medie e popolari, l’esigenza pratica ed intima delle nuove correnti religiose meno strettamente legate alla gerarchia ecclesiastica e al Pontificato e piú rivolte a borghesia e popolo, porterà alla vasta e sicura adozione letteraria del volgare e all’uso di questo in forme alte e raffinate di arte, fino all’intervento decisivo di Dante, che praticamente e teoricamente sancirà la validità, necessità, nobiltà del volgare, pur mantenendo per la trattazione di temi di valore generale e universale (come nella Monarchia) l’uso del latino come lingua ancora usata in rapporto sopranazionale e piú strettamente scientifico e filosofico.

2. Volgare e tradizione mediolatina

D’altra parte proprio questo persistere del latino ancora nell’attività di Dante, massimo affermatore del volgare e della sua potenza espressiva, ci deve ricordare altri aspetti da considerare in questo breve quadro non solo linguistico-letterario, ma storico-civile e culturale.

Anzitutto il fatto che, quando il volgare assume la sua intera capacità espressiva e letteraria, esso pure continua ad alimentarsi della eredità latina, sia nella ricerca e ripresa diretta della esemplarità di testi della classicità, sia nella continuità di una tradizione culturale, letteraria, civile, che, specie ad opera della Chiesa, degli elementi ecclesiastici, dei grandi centri culturali costituiti dai monasteri, specie benedettini, aveva mantenuto viva, attraverso i secoli del basso Medioevo, l’eredità classica, sia in alcuni essenziali elementi culturali e morali adeguati alle nuove prospettive prevalentemente religiose e cristiane medievali, sia in una prospettiva di dignità formale e letteraria, in una preoccupazione di regolarità e capacità espressiva che sostiene l’importanza delle rettoriche e poetiche medievali con le loro regole di struttura artistica della stessa prosa (i vari tipi di cursus, delle norme cioè secondo le quali si dovevano disporre le parole nella frase in base al ritmo complessivo di essa; se ne avevano tre tipi, il planus, il tardus e il velox), con i loro insegnamenti formali spesso assai complessi e implicanti una notevole coscienza letteraria.

Sicché il giovane che si avvicina alla storia della nostra nascente letteratura dovrà rendersi ben conto che l’affermazione di questa nel Duecento è anche sorretta e preceduta – specie nei casi piú alti e poetici come quello di Dante, ma anche in quello di un san Francesco, che vedremo tutt’altro che incolto e impreparato – dalla lunga tradizione letteraria del Medioevo latino, che investe tutta la civiltà europea, con una circolazione di opere di varia origine territoriale, ma accomunate da esigenze fondamentalmente unitarie, e che trova in Italia una sua abbondante attuazione in opere importanti per il loro valore storico e culturale e spesso per il loro stesso valore letterario o addirittura poetico.

C’è dunque, come premessa alla storia della nostra letteratura, una storia della letteratura latino-medievale in Italia che deve essere almeno qui richiamata attraverso un breve accenno ad opere ed autori, utile soprattutto a indicare la generale importanza di questa letteratura, a combattere l’immagine ingenua di un Medioevo senza cultura e letteratura fino all’apparizione improvvisa della nuova letteratura volgare, nonché a permettere una rapida indicazione di caratteri e tendenze della civiltà e della cultura italiana di quei lontani secoli attraverso la loro espressione in quelle opere latine.

3. La letteratura latina medievale

Nel periodo seguente alla caduta dell’impero romano e sotto il regno di Teodorico nel secolo VI, la piú vicina eredità della civiltà e della letteratura latina classica si riflette nell’opera di due scrittori che, con diversa sorte personale, rappresentano una forma di difficile difesa degli elementi della tradizione civile romana e del pensiero greco-latino di fronte al nuovo dominatore germanico e nel tentativo di dare una struttura piú civile al regno latino-germanico che Teodorico pur confusamente tese, almeno inizialmente, a costruire servendosi della collaborazione di personalità italiane colte e in sé concilianti il nuovo spirito cristiano e l’antica saggezza classica. Come furono appunto il calabrese Magno Aurelio Cassiodoro, segretario di Teodorico e dei suoi successori, per i quali scrisse epistole ufficiali piene di interessanti notizie storiche, e, dopo il suo ritiro in un monastero calabrese, autore di altre opere storiche, teologiche e grammaticali, e, molto piú personale e importante, il romano Severino Boezio (480-524), fatto uccidere in carcere a Pavia da Teodorico, di cui era stato collaboratore e da cui fu incolpato di tradimento.

Proprio nel periodo passato in carcere attendendo la morte, Boezio scrisse il suo libro piú alto: quel De consolatione philosophiae in cui la filosofia antica e la fede cristiana si fondono nella rappresentazione di un’ideale donna allegorica che consola lo sventurato e nobile prigioniero con alti, luminosi ragionamenti in prosa e in versi latini che, per contenuti spirituali e per modi stilistici, ebbero non poca influenza su molti scrittori medievali fino a Dante, il quale riconobbe in Boezio uno dei suoi maestri esemplari.

Mentre il nuovo spirito religioso cristiano, con i suoi motivi di esaltazione della potenza e bontà divina, del sacrificio dei martiri, dell’intervento caritatevole dei santi e della Madonna, trova piú diretta espressione poetica nei numerosi inni latini di scrittori ecclesiastici: come avviene soprattutto nei versi, tutt’altro che privi di elementi della cultura classica, ma ispirati da un fresco sentimento mistico, di Venanzio Fortunato (530 circa-600). Tradizione di inni cristiani che continua ininterrotta lungo i secoli dell’alto Medioevo fino al Duecento, quando furono scritti alcuni inni latini religiosi di alta potenza spirituale ed espressiva: il Pange lingua di san Tommaso d’Aquino, il Dies irae di Tommaso da Celano, lo Stabat mater del grande Jacopone da Todi, di cui piú tardi parleremo per la sua produzione poetica in volgare.

E se, dal secolo VII fin verso la fine del secolo IX, la cultura e la letteratura sembrano cedere di fronte a una concezione della vita sempre piú dominata dalla prospettiva religiosa e trascendente che riduce di molto l’attenzione e la valutazione delle forme letterarie come arti mondane e inutili alla salvezza dell’anima, questa stessa concezione, che guarda alla storia umana come interamente regolata dalla volontà divina, trova pure espressione in alcune opere anche in questo periodo di piú limitata vitalità letteraria: specie in opere storiografiche, in cronache come quella Historia Longobardorum in cui Paolo Diacono, verso la fine del secolo VIII, narrò le vicende dei Longobardi in Italia, o come l’Antapodosis (contraccambio) in cui il vescovo di Cremona, Liutprando, narrò gli avvenimenti italiani ed europei dall’887 al 950.

Poi, con l’accresciuta vitalità economica, sociale, politica che caratterizza la storia italiana fra il secolo X e il XII, soprattutto con la decadenza del feudalesimo e la ripresa della vita delle città, che vengono organizzandosi in comuni, la letteratura in latino ha un piú forte rigoglio, appoggiato com’è dal fiorire delle università e delle scuole cittadine, tanto piú aperte e attive delle piú ristrette scuole legate alle curie vescovili o ai monasteri in cui si era mantenuta viva, nei secoli precedenti, la tradizione classica e lo studio della retorica.

Ecco cosí formarsi, intorno alle università e allo studio delle leggi (specie a Bologna dove il grande giurista Irnerio dà vita a una importante scuola di glossatori o interpreti del diritto romano), nuove scuole di retorica in cui si insegna l’arte dello scrivere e si diffonde un piú raffinato studio dello stile necessario alla nuova attività culturale, ai piú intensi scambi epistolari, all’oratoria politica e civile.

Cosí trovano nuovo vigore espressivo (pur entro limiti di una certa rozzezza) le numerose cronache che narrano in latino le vicende delle città, dei monasteri, dei regni. E basti ricordare in proposito, nel secolo XIII, la cronaca cittadina del genovese Caffaro, quella che Ugo Falcando dedica alle vicende dei Normanni, o, soprattutto, nel secolo XIII, quella del frate di Parma Salimbene de Adam, la piú notevole anche da un punto di vista letterario per l’efficacia colorita del suo latino già inclinato a forme piú vicine al volgare, e che narra, con ricchezza di particolari realistici, arguta saggezza e acceso spirito di parte, gli avvenimenti contemporanei.

E il gusto del narrare, che prevale nella letteratura latina di quei secoli, si esprime anche in poemi che tentano di rifarsi ai grandi modelli classici e intendono cosí dar maggiore dignità agli avvenimenti narrati: come può vedersi, ad esempio, nelle Gesta Roberti Wiscardi di Guglielmo Pugliese o nel Liber maiolichinus che narra la vittoria dei pisani sui saraceni a Maiorca nel secolo XII.

Né dovrà certo dimenticarsi, in una cultura cosí dominata da motivi religiosi e dallo sviluppo del pensiero cristiano, che caratterizza e accomuna la situazione culturale medievale non solo italiana, ma europea, l’importanza di grandi opere filosofiche e teologiche in latino dovute a pensatori italiani: prima, nei secoli XI e XII, le opere di san Lanfranco da Pavia, di san Pier Damiani di Ravenna, di sant’Anselmo d’Aosta, poi, nel secolo XIII, le opere di san Tommaso d’Aquino maestro della filosofia scolastica e della metafisica aristotelico-cristiana, e di san Bonaventura da Bagnoregio, filosofo mistico ed efficacissimo scrittore di eloquenza rigogliosa e immaginosa.

Si pensi subito alla Divina Commedia di Dante e al suo rapporto con il pensiero teologico-filosofico e mistico medievale e si capirà come il capolavoro della letteratura medievale sia impensabile senza questo suo profondo rapporto con le grandi opere ricordate scritte in latino e con tutta la preparazione culturale e letteraria rappresentata dalla letteratura latina del Medioevo.

Vi è dunque una continuità fra la letteratura latina medievale e la nuova letteratura volgare che va ben chiaramente affermata di fronte a vecchie immagini di un nuovo mondo letterario che nasce senza nessun legame con il passato e in contrasto con secoli di barbarie e di tenebra.

Ma, detto questo, occorrerà pure avvertire che l’adozione della lingua volgare per usi di cultura e di espressione poetica (e dunque al di là dell’uso puramente pratico già ricordato a proposito dei primi documenti del volgare) rappresenta un fatto di grande importanza e segna pure un distacco e un inizio carichi di novità e di storia.

Quell’adozione si lega alla piú forte vitalità che contraddistingue l’epoca dell’organizzazione comunale, dell’affermarsi di forze nuove cittadine sia in senso economico (la nuova economia mercantile di contro all’economia curtense feudale), sia in senso politico (appunto la nuova organizzazione dei comuni): forze nuove che, pure nel generale orientamento di concezioni religiose e trascendenti, tendono a svincolarsi dall’unica direzione ecclesiastica, e posseggono una nuova coscienza della realtà politica e sociale da loro creata, si aprono al gusto dei rapporti socievoli e mondani, ad una piú vasta e ricca gradazione di sentimenti terreni (amore, amicizia, doveri e diritti civili, amore per le cose belle e utili), e vogliono esprimere questo loro mondo interiore in una lingua letteraria che corrisponda allo strumento linguistico dei loro rapporti quotidiani, qual era appunto il volgare.

E se, come vedremo nei capitoli seguenti, i nuovi scrittori in volgare saranno prevalentemente uomini forniti di cultura, la nuova tensione ad esprimersi in volgare investe anche zone piú popolari e di minore cultura entro il vasto articolarsi di una civiltà in formazione, piú aperta e ricca di quella dei secoli dominati solo dalla cultura e dalla letteratura in latino.

4. Poesia popolare e giullaresca delle origini

Fiorisce cosí agli inizi del Duecento una lirica popolare dotata di freschezza e di semplicità, anche se in genere limitata quanto a motivi e ad elaborazione artistica. Una lirica ispirata a occasioni della vita quotidiana, a temi elementari, ma schietti: poesie d’amore, canti nuziali, lamenti di fanciulle desiderose di amore o di donne maritate ad uomini anziani e gelosi, canti per danze, contrasti fra donne restie e amanti appassionati e impazienti, omaggi a personaggi importanti e potenti.

E queste liriche, mentre spesso vengono amorosamente raccolte da uomini di cultura attratti da questa poesia piú elementare e spontanea (il caso di alcuni notai bolognesi che raccolsero nei loro Memoriali, o registri degli atti del comune, accanto a poesie di autori illustri questi prodotti piú semplici e popolari), trovavano diffusione e maggiore elaborazione artistica (e a volte diretta creazione) mercè l’attività di quei «giullari» che guadagnavano la vita allietando le corti dei signori o il pubblico piú vario della città con la recita appunto di componimenti poetici.

Di questa poesia popolare-giullaresca particolare ricordo meritano componimenti come alcune delle brevi poesiole raccolte nei ricordati Memoriali bolognesi (fra esse il limpido e leggiadro «For de la bella cayba / fuge lo lixignolo»), o come il cosiddetto Lamento della sposa padovana, che canta, con delicata freschezza, il fedele amore di una donna per l’amato lontano, crociato in Terrasanta, o come il piú noto contrasto Rosa fresca aulentissima, attribuito ad un giullare meridionale, Cielo d’Alcamo, assai efficace nella rappresentazione realistica e arguta dei due personaggi in contrasto: l’innamorato, focoso e sfacciato, e la fanciulla che resiste alle sue profferte di amore fino ad una capitolazione precipitosa. In quest’ultimo un forte sapore popolare si mescola ad una serie di elementi, linguistici e stilistici, che mostrano come l’autore non sia affatto ignaro di letteratura e come usufruisca assai abilmente di modelli colti. Siamo ormai con esso in una stagione e in un ambiente che vedono nascere una poesia colta quale è quella che fiorisce alla corte dell’imperatore svevo Federico II e di cui si parlerà in seguito.